Autore: Luigi Prestinenza Puglisi
pubblicato il 2 Luglio 2015
nella categoria Cronache e commenti
C'era un tempo in cui le esposizioni universali celebravano la modernità. Gli stati nazionali facevano a gara a chi avesse il padiglione più moderno e gli architetti sperimentali investivano in questi edifici tutto il loro ingegno. Expo67 - Buckminster Fuller Nell'esposizione di Montreal del 1967 per esempio Buckminster Fuller costrui' una delle sue più grandi cupole geodesiche, strutture reticolari ampie quanto isolati, quartieri o addirittura città che rendevano inutili molte funzioni - per esempio il riparo dagli agenti atmosferici- normalmente delegate ai palazzi. E il venticinquenne Moshe Safdie disegnò un habitat di cellule residenziali realizzate in fabbrica e giustapposte in loco che avrebbe dovuto abbattere i costi di costruzione. E introdurre il principio che l'abitazione, come l'automobile, la si cambia dopo un ragionevole ciclo di vita: l'idea era troppo ottimista tanto che ancora oggi le case di Safdie svolgono la loro funzione e, diventate una delle attrazioni di Montreal, fanno bella e statica mostra di sè. Expo70 - Kenzo Tange L'apoteosi dell'idea di una esposizione universale dedicata a celebrare l'architettura della società contemporanea fu l'expo di Osaka del 1970, gestito dall'abile regia di Kenzo Tange, il progettista che in seguito disegnerà, tra le altre cose, i centri direzionali di Bologna e di Napoli e il gigantesco quartiere Librino a Catania. Il giapponese realizzò un'enorme megastruttura sospesa su soli quattro pilastri e delle dimensioni di circa 100 metri per duecento, pari a quattro campi da calcio. Ma anche gli altri progettisti dei 53 padiglioni stranieri e dei 32 nazionali non furono da meno: chi realizzò strutture pneumatiche, chi costruzioni interrate, chi arditi grappoli di capsule prefabbricate. E tra i tanti c'era il giovanissimo Renzo Piano allora ai suoi esordi: l'anno dopo, trentaquattrenne, insieme con Richard Rogers e Gianfranco Franchini, vincerà il concorso per il centro Pompidou a Parigi. Expo 2015 - Albero della Vita Oggi con l'expo di Milano siamo lontani da quei tempi eroici. D'altronde è da numerosi expo a questa parte che non si vede una concentrazione di padiglioni degni di nota, anche se ovviamente ci sono state alcune e notevoli eccezioni.- Manca un'idea di futuro che muova gli animi e convinca gli espositori ad abbandonare ciò che attrae perchè semplicemente scenografico in favore di ciò che conquista perchè profetico. Certo in questo expo di Milano all'inizio c'era una idea bella e stimolante: costruire poco e dare la parola alla terra e al cibo, sostenendo che oggi per generare progresso occorra fare un passo indietro.- L'ipotesi espositiva era però troppo forte e forse poco scenografica; inoltre comportava una cooperazione di intenti tra troppe realtà- nazionali e economiche diverse. E cosi' si è deciso di annacquarla allestendo un expo piacevole ma lottizzato per padiglioni come tanti altri. Dell'importanza del quale forse ci dimenticheremo nel momento in cui saranno chiusi i battenti e si dovranno tirare le somme. Articolo pubblicato su-Artribune Magazine-#24