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Bernard Tschumi – Architecture and Disjunction

Bernard Tschumi – Architecture and Disjunction

Autore: Luigi Prestinenza Puglisi
pubblicato il 3 Aprile 2014
nella categoria Cronache e commenti

Bernard Tschumi, Architecture and Disjunction, The MIT Press, Cambridge, Massachussets 1996

 

Nel 1968 Bernard Tschumi partecipa alla contestazione studentesca; negli anni Settanta tiene corsi alla Architectural Association di Londra intitolati " Urban Politics" e " The Politics of Space"; contemporaneamente allaccia contatti clandestini con l' IRA, recandosi diverse volte a Belfast e a Derry per preparare un numero dell' Architectural Design, dedicato alle rivolte urbane.

Tschumi combatte l'architettura commerciale delle grandi Corporation ma anche le poetiche concettuali e autoreferenziali ( Five Architects, Aldo Rossi, la Tendenza) emergenti in quegli anni. Per lui sono il prodotto, sia pure raffinato, di una società alienata che dematerializza la architettura, privandola della propria corporeità. E il cui simbolo è la Piramide , cioè una pura costruzione razionale e, insieme, una algida prigione di cui possiamo prima tracciare e poi percorrere i confini.

Tschumi, invece, teorizza una estetica della contraddizione, che al simbolo della Piramide affianca quello del Labirinto.

Il Labirinto, diversamente dalla Piramide, non può essere contemplato ma percorso, ci avvolge , stimola la nostra immaginazione costringendoci a un eterno errare tra varchi che non sapremo mai se ci risucchiano verso il centro o si aprono verso l'esterno .

Ispiratore della metafora del Labirinto è Bataille, filosofo dell'eccesso, dal quale Tschumi apprende l'importanza del corpo , della materia e della sensualità , costantemente mortificati dall'intellettualismo occidentale.

Accanto a Bataille, influenzano Tschumi anche i filosofi della scuola di Francoforte: il Marcuse di Ragione e Rivoluzione e l' Adorno dei Minima Moralia. La rivoluzione, per loro , è innanzitutto il rifiuto di una società che, concettualizzando , trasforma tutto in oggetto di prassi scientifica, in dato numerico, in equivalente, in merce.

Osserva Tschumi: l'architettura non è pura costruzione mentale, ma pendolo che oscilla tra la purezza e il caos, tra la struttura e l'ornamento, tra la rigidezza della concettualizzazione e le fulminazioni dell'intuizione. E' la pienezza della contraddizione, la sensualità di una ricerca continua dove allo spazio come costruzione mentale si contrappone sempre lo spazio come pura esperienza. E' il recupero di una dimensione globale dell'esistenza, contro le mutilazioni dell'uomo a una dimensione: il piacere, dunque, come ricomposizione dell'unità infranta dalla società mercantile-tecnologica, come evento rivoluzionario, come dimensione estetica della politica.

Caduto con il 1968 il mito dell'immaginazione al potere, Tschumi rivede ma non abbandona la propria impostazione teorica. Rifiuta di approdare nelle secche della riflessione sul linguaggio cioè a un atteggiamento che sta inaridendo, con il suo formalismo , le sue cervellotiche codificazioni e i suoi narcisistici rispecchiamenti, la ricerca progettuale. Nota Tschumi: credere alla architettura come cristallizzazione mentale, cioè come pura forma, vuol dire negare il ruolo dell'uomo che la utilizza. I Five, in questa ottica, non sono diversi dai Post Modern e dai modernisti: progettano un edificio per il momento in cui i fotografi lo ritraggono vuoto e appena finito. Ci propongono, insomma, bianchi scheletri che rifiutano la vita plasmata dal potere distruttivo del tempo e da quello rigenerativo degli eventi.

La dialettica degli opposti viene adesso recuperata per strutturare una estetica della decostruzione. In linea con l'insegnamento di Derrida, Tschumi individua nelle contraddizioni insite nell'essenza stessa dell'architettura - per esempio tra lo spazio teorico e lo spazio empirico oppure tra la concretezza della forma e la sua deriva temporale - l'apertura verso una assenza: " L' architettura - dice - è sempre espressione di una mancanza, una scorciatoia, un non-finito. Essa è sempre carente di qualcosa, sia questa una realtà o un concetto". Ed è questa dialettica dell'assenza che, proponendo un gioco continuo di avanzamenti e arretramenti scardina e destruttura ma anche permette al pensiero di percorrere e sondare i propri confini, producendo nuove aperture e chiarificazioni. La mancanza si trasforma cosi' in desiderio, stimolo alla scoperta, in invito a varcare i limiti, in seduzione gnoseologica.

La disgiunzione - che è la parola-chiave del libro, perchè insieme suggerisce l'apertura, la contraddizione e la decostruzione- è quindi qualcosa in più che un semplice esercizio stilistico nel quale i decostruttivisti si crogiolano. E' , in linea con Bataille ma anche con Baudrillard, il fondamento di una estetica della seduzione e della assenza e, insieme, una prassi di riappropriazione delle molteplici dimensioni dell'individuo.

E' quindi profondamente sbagliato -aggiunge Tschumi con un esplicito riferimento a Philip Johnson e alla sua estetica disimpegnata- considerare il Decostruttivismo come un ennesima moda metropolitana. E la mostra del 1988 al MOMA può essere tanto pericolosa alla causa del Decostruttivismo quanto lo fu alla causa del Movimento Moderno quella dell' International Style del 1932.

Il Decostruttivismo ridotto a formula, infatti, diventa una banale costruzione teorica , il ricettario per costruire l' ennesima Piramide. Non un Labirinto, per il quale occorrono anche l' uso, i valori sociali, il programma, gli eventi e, soprattutto, quel corpo che , come nota Tschumi, è sempre stato sospetto poichè ha limitato le più scatenate ideologie progettuali, disturbando la purezza dell'ordine architettonico e costituendo una dannosa proibizione.

Da qui la proposta di sostituire la triade vitruviana di venustas, firmitas, utilitas con una nuova più cruda e attuale: linguaggio, materia, corpo. E anche di rivalutare gli eventi e il programma. Certo, non in una accezione ingenuamente behaviourista che crede che una buona forma determina un buon uso. Ma nel senso che la progettazione degli eventi che si svolgeranno nello spazio ne determinerà sicuramente l'aspetto , il significato e l'apertura alla modernità. Progettare gli eventi vuol dire, infatti, introiettare lo shock che distingue la nostra società metropolitana da quelle che ci hanno preceduto. Ma anche aprire la progettazione alle sollecitazioni esterne , abbandonando una volta per tutte il mito dell'autonomia, questa sorta di araba fenice che per un trentennio ha ossessionato il pensiero architettonico. La dimensione del Labirinto è, infatti, l'eteronomia, la commistione dei linguaggi,delle discipline e delle esperienze, l'ibridazione.

Il libro di Tschumi si pone dunque sulla stessa lunghezza d'onda dei recenti di Jencks ( The Architecture of the Jumping Universe) e di Koolhaas (S,M,L,XL). Con il suo approccio poststrutturalista di rito francese, ne completa il panorama. Insieme - nonostante ingenuità e nodi problematici irrisolti- questi tre libri indirizzeranno molta della più interessante ricerca dei prossimi dieci anni