Questa settimana su La storia dell’ architettura contemporanea di LPP (https://www.facebook.com/pages/La-storia-dellarchitettura-contemporanea-di-lpp/289706921182644?ref=ts&fref=ts) si affronta la Maison de Verre di Pierre Chareau. Un capolavoro di cui nessuno all’università (e questa la dice tutta sull’università di Roma che frequentavo a metà anni settanta) mi parlò mai. Lo scoprii tardi e mi ci appassionai.
Andai a Parigi a cercarlo e riuscii a entrarci, commuovendo un operaio che stava lavorandoci all’interno. Scrissi sulla Maison uno dei miei primi articoli.
Lo mandai al professor Zevi a cui piacque. Mi disse che l’avrebbe pubblicato su l’Architettura. Era il marzo del 1994. L’articolo però non fu pubblicato e io ho perso il testo.
Mi dispiace perchè lo sviluppavo attorno alla passione di Chareau per la musica e il ballo: i suoi mobili e le sue case sembrano danzare.
In quel periodo ero influenzato da una immagine di Bernard Tschumi che faceva vedere lo schema dei movimenti in una casa ergonomica funzionalista e la contrapponeva alla maggiore libertà (nel senso di libertà dalla costrizione dell’angolo retto) dei passi di danza.
Oggi continuo a ripensarci: Tra due punti la linea più breve è una retta. E difatti gli schemi del Klein che analizzano gli appartamenti dell’existenz minimum puntano proprio a congiungere i punti della casa con il più breve percorso possibile.
Nella danza i movimenti sono obbligati, ma le traiettorie che si percorrono sono altre, apparentemente inutili.- Sono linee fluide, curve.-Niemeyer aveva capito bene tutto questo. E pure Zaha Hadid. Ecco perchè, quando le sue opere peccano di manierismo e arbitrarietà, non riesco mai a essere troppo severo.
Mi chiedo -però se sia giusto imporre a chi abita lo spazio il proprio passo di danza.