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Diane Ghirardo – Architecture after modernism

Diane Ghirardo – Architecture after modernism

Autore: Luigi Prestinenza Puglisi
pubblicato il 30 Marzo 2014
nella categoria Storia

Diane Ghirardo, Architecture after Modernism, Thames and Hudson, pagg.240, Londra 1996 Nel 1992, l'ex preside della facoltà di architettura dell' università di Southern California a Los Angeles interviene alla conferenza organizzativa sul futuro della facoltà. Critica le proposte di unire Architettura a Pianificazione Urbana o a Belle Arti. Propone, invece, l'accorpamento con la facoltà di Tecniche Teatrali, sulla base di un comune interesse per la scenografia. L'intervento tocca un nervo scoperto e evidenzia la difficoltà degli architetti a elaborare prodotti che non si limitino a confezionare e mettere in scena contenuti che altri, in altra sede, elaborano per loro. A distanza di qualche anno il libro della Ghirardo, Architecture after Modernism, riprende e sviluppa l'intuizione dell'ex preside. L' attuale Star System - afferma l'autrice- produce vuote immagini, nude scenografie. E la latitanza degli architetti dal piano dei contenuti è tanto più grave quanto più profondi sono i mutamenti spaziali che questa società sta subendo a causa dell'intervento congiunto di molteplici fattori esterni: tecniche di vendita teatralizzate, forme di divertimento fantasmagoriche, tendenze demografiche implosive, costumi personalizzati, contrasti etnici esplosivi, forme di comunicazione polidirezionate. Per ricentrare l'architettura sui fatti - afferma la Ghirardo- occorrerà fondarla su una analisi che eviti di focalizzare l'attenzione su pochi protagonisti o che proponga l'ennesima apologia dei linguaggi alla moda, per delineare, invece, sulle tracce dell' Hauser, una storia sociale dell'architettura. Tre sono gli argomenti che la Ghirardo approfondisce in altrettanti capitoli: lo spazio pubblico, la residenza, i progetti a scala urbana. E' soprattutto nello spazio pubblico che si registrano le più significative novità della produzione architettonica. I grandi centri commerciali - dal Southdale Mall del 1956 al Mall of America del 1990- e i giganteschi parchi a tema - da Anaheim nel 1955 a Eurodisney del 1990- hanno mostrato che è finita l'era delle tradizionali strutture monofunzionali, specializzate. Per avere successo devono essere insieme spazi di vendita , di divertimento, di fantastico viaggio nel tempo e nello spazio. Ma lo spazio e il tempo rappresentati in queste strutture spesso sono ridotti a semplici stereotipi. I caratteri locali sono caratterizzati da segni di riconoscimento banali ( la pagoda cinese, il sombrero messicano) e la storia ridotta a un idillico passato senza tempo, sottolineato da materiali plastici che rendono lucenti e inossidabili le superfici e impossibile il depositarsi delle tracce del tempo. Ridotti a sommatoria di stereotipi, gli spazi pubblici si rassomigliano l'uno con l'altro, siano questi i centri commerciali fuori dall'anello urbano o i centri storici delle città, imbalsamati e imbellettati dalle Soprintendenze. Traspaiono dall'analisi della Ghirardo la lezione di Focault ( eterotopie) e Augè (non luoghi), ma soprattutto le ricerche sulla dinamica degli spazi pubblici proposte da Progressive Architecture. E' , in particolare, la pragmatica impostazione della recentemente scomparsa rivista americana che permette alla Ghirardo di sgombrare il campo da troppe astratte generalizzazioni filosofiche o antropologiche, per far posto all'analisi concreta delle architetture. Dalla quale emergono anche esempi convincenti. Per esempio il centro commerciale di Gehry a Santa Monica o le decine di musei, costruiti o ampliati negli ultimi due decenni in America e in Europa, per essere parzialmente trasformati anch'essi in centri di vendita, divertimento, commercio. Risultati alterni, ma nella generalità, certo non incoraggianti anche nel settore dell'edilizia residenziale. Anche quando, come nel caso dell' IBA di Berlino, l'intera operazione è stata condotta dalla mano pubblica e sostenuta da un forte e organizzato movimento degli utenti. Gli architetti, nella gran parte dei casi, si sono infatti limitati a progettare facciate storiciste, post modern, decostruttiviste, tralasciando quasi del tutto la ricerca tipologica. Risultato: gli spazi interni ancora legati alla cultura dell'existenz minimum e la scarsissima attenzione alle utenze non tradizionali ( anziani, single, madri nubili...). In ultimo, il libro della Ghirardo analizza i grandi progetti degli anni '80 e in particolare l'esperienza londinese ( docklands) e parigina ( progetti mitterandiani) traendone un bilancio negativo. Soprattutto per l'esperienza dei docklands dove l'intervento dell'architetto di prestigio è stato spesso limitato alla facciata e alla scenografia urbana, mentre la conformazione e la gestione degli spazi è stata lasciata ai tecnici delle imprese costruttrici. Il libro della Ghirardo spesso sconcerta per la perentorietà delle affermazioni, soprattutto noi italiani abituati alla raffinata sociologia tafuriana. Per esempio per la tesi secondo la quale si produce poca buona architettura perchè la gran parte degli architetti sono maschi e bianchi e quindi poco attenti al nuovo. Oppure per la facilità con la quale, liquidandone la ricerca formale, mette sullo stesso piano personaggi mediocri e artisti autentici. E' tuttavia un libro coraggioso e molto ben documentato che percorre una strada poco battuta e cerca di ricongiungere i due estremi di una forbice ( la ricerca storico-sociologica e quella architettonico-linguistica ) che va sempre di più divaricandosi.