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Neil Leach – Anaestetics

Neil Leach – Anaestetics

Autore: Luigi Prestinenza Puglisi
pubblicato il 1 Aprile 2014
nella categoria Questioni di teoria

Questo è un lavoro polemico, scrive Neil Leach nell'introduzione. E polemiche il libro ne ha suscitato. Per esempio da parte del recensore dell'Architect's Journal che ne ha stroncato le tesi. Che sono chiare, esplicite e riassumibili in cinque, una per ciascun capitolo. Prima tesi. L'architettura subisce negativamente il clima culturale di una società saturata dalle immagini. Queste nascono da un desiderio informativo ma, alla fine, un eccesso di informazione distrugge la comunicazione. Che avrebbe bisogno di meno dati e di più concetti. Troppe immagini producono un mondo simulato, una Disneyland diffusa. Miti, sogni, fantasmi traspaiono dalle forme degli architetti contemporanei. Ma anche dai panorami urbani che, come nel caso dei centri storici, sono trasformati da asettiche operazioni di chirurgia plastica in oggetti irreali, privi di effettivo spessore storico. Seconda tesi. Viviamo in un'epoca nella quale il visuale, che si fonda sull'occhio che dei cinque organi di senso è il più astratto e elitario, trionfa. Da qui anche la scarsa considerazione degli architetti per i concreti spazi della vita e per le esigenze degli utenti. Si ripercorrono gli errori delle ideologie fasciste che, appunto, non esitarono ad estetizzare fatti che sarebbero dovuti essere giudicati con altri parametri. Quanti architetti, si chiede Neil Leach non esiterebbero ad aprire tra le case un'arteria di traffico solo perchè ciò corrisponde ad un imperativo formale? E, inoltre, non esiste forse più di un parallelismo tra l'esteticizzazione fascista dell'esistenza e la seduzione, tutta visiva e sensuale, del mondo delle merci, di cui oggi l'architettura fa parte? Terza tesi. Un'estetica basata sulla rapida successione di immagini ha per il nostro sistema nervoso il valore di una droga. Serve a intorpidire più che a risvegliare i sensi. E a fare in modo che il vertiginoso mutamento delle tecniche, imposto dalla logica del consumo, piuttosto che produrci dolore e disorientamento ci arrechi piacere. Il veleno, come per la medicina omeopatica, diventa controveleno. Lo stimolo un anestetizzante. E l'architetto si trasforma in un manipolatore pubblicitario costretto a lavorare sul convulso, ma in fondo prevedibile, ripetersi delle mode. Quarta tesi. La seduzione è uno strumento attraverso il quale perseguire scopi di altro genere: etici e politici. Non è il fine ultimo dell'arte nè tanto meno dell'architettura. I migliori progettisti, invece, a partire dagli studi su Las Vegas di Venturi hanno spesso limitato le loro indagini formali ad aspetti iconici immediatamente percettibili. Da qui un superficiale formalismo. Vale a dire un atteggiamento estetizzante che non è in grado di scalzare i presupposti della cultura dominante. Ma che anzi, essendone presto assorbito, li rafforza. E cosi' da un'architettura tesa all'interpretazione e alla profondità, quale per esempio quella proposta dai Situazionisti negli anni sessanta, si è passati al caleidoscopio di immagini ammannite da un seducente, ma sempre più politicamente innocuo, star system. Quinta tesi. Lo scollamento tra forma e contenuto che, in questi ultimi anni, sta producendo fenomeni paradossali. Per esempio corsi di insegnamento nei quali si teorizza il perseguimento dell'immagine architettonica indipendentemente dal programma funzionale. Oppure critici e architetti - Neil Leach non li cita ma è chiaro che si rivolge a Mark Wigley, Jeffrey Kipnis, Peter Eisenman - interessati da forme " that attract rather than denote signification" (che attraggono piuttosto che denotano il senso). La differenza non è da poco: mentre le prime devono sedurre per suscitare catene di significati che possono essere i più arbitrari, le seconde hanno senso in loro stesse e, per essere svelate, costringono l'osservatore a entrare all'interno della logica del progetto e del suo discorso. L'arte, insomma, non può essere un infinito gioco di libere metafore in cui ogni significato, politico o no che sia, possa essere appiccicato a qualsiasi superficie, ma un discorso strutturato di cui esiste una definita chiave interpretativa. Dietro la circostanziata denuncia di Neil Leach non è difficile intravedere una linea di ricerca filosofica che va dal razionalismo critico della scuola di Francoforte al situazionismo di Debord sino alla sociologia dei paradossi di Jean Baudrillard. Autori ampiamente citati e di cui Neil Leach aveva già proposto numerosi brani nella sua precedente antologia "Rethinking Architecture. A Reader in Cultural Theory". E ugualmente agevole è trovare punti di contatto con le osservazioni di Umberto Eco, sviluppate in "I limiti dell'interpretazione", polemico contro le scuole decostruttiviste che stimolano la deriva interpretativa del lettore a scapito dell'esegesi e dell'analisi del testo. Due o tre obiezioni vanno, però, sollevate al lavoro di Neil Leach. Innanzi tutto, occorre osservare che lo scarto dall'opera all'interpretazione, dal simbolo alla metafora, dalla struttura alla superficie, permette di ripercorrere, ampliandola, una linea di ricerca inventata dal genio di Marcel Duchamp. Consiste nello spostare l'attenzione dal prodotto artistico in sè e per sè alla complessa interrelazione tra artista/prodotto/fruitore. Oggi, con le possibilità offerte dall'elettronica - che è appunto fondata sul concetto di interrelazione- questa linea di ricerca attende nuovi sviluppi e promette nuovi risultati. Va, poi, osservata la positività per l'architettura di una sua sempre più radicale compromissione con il divenire della vita e i suoi volatili valori. Da qui la freschezza di approccio che le ha permesso di abbandonare le secche dell'autoreferenziale manierismo postfunzionalista nel quale si era per molti anni arenata. Pericoli di cadute nello star system e nell'effimero delle mode? Certo. Ma la ricerca architettonica è attualmente più avanti di quanto paventato dal critico inglese. Autori quali Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Daniel Libeskind, Bernard Tschumi, Jean Nouvel, pur giocando con l'estetica della seduzione e sviluppando infinite quanto fragili catene metaforiche, propongono opere che vanno ben al di là della vuota apparenza dell'involucro. I veri artisti -e questa mi sembra una delle poche regole costanti della storia delle forme- sono sempre più furbi delle categorie critiche che li vogliono imbrigliare.