Autore: Luigi Prestinenza Puglisi
pubblicato il 30 Marzo 2014
nella categoria Personaggi
Fran├ºois Burkhardt e Cristina Morozzi, Andrea Branzi, èditions Dis Voir, Parigi 1998, pagg.128. Andrea Branzi studia a Firenze in un ambiente influenzato dal magnetico neoespressionismo di Giovanni Michelucci, dalle ricerche brutaliste di Leonardo Ricci e Leonardo Savioli e dalla dissacrante attività di polemista del critico Giovanni K. Koening. In un clima, quale quello italiano degli anni sessanta, ancora pesantemente segnato dall'eredità neo-liberty e neo-storicista, la tensione verso il nuovo di questi protagonisti rappresenta una linea di fresca novità. Ma, soprattutto, uno stimolo a andare avanti verso un terreno preparato da almeno tre eventi: le riflessioni sull' avanguardia e sulla teoria dell'informazione di Umberto Eco, che nel 1962 pubblica Opera Aperta e dal 1966 insegnerà proprio all'università di Architettura di Firenze; la Biennale di Venezia del 1964 nella quale, sotto l'abile regia di Leo Castelli, espongono gli artisti Pop americani; il lavoro del gruppo londinese degli Archigram, una formazione di sei architetti che, sostenuti dal critico Reyner Banham, propongono nuove forme per la civiltà dei consumi: città nomadi, capsule abitative impilabili, materiali da costruzione assemblabili industrialmente, tecniche innovative. Laureatosi nel 1966 con un progetto per un parco di attrazioni permanenti, composto da un supermercato situato all'interno di una immensa discoteca, Branzi fonda il gruppo Archizoom. Sempre nel 1966 organizza, insieme a Superstudio una mostra dal titolo Superarchitettura. Che, come spiegherà la locandina, è " l'architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al consumo, del supermarket, del superman, della benzina super. La superarchitettura accetta la logica della produzione e del consumo e vi esercita una azione demistificante". Branzi, come del resto molti giovani della sua generazione, è affascinato dalle ricerche delle avanguardie e da quanto accade a Londra dove si diffondono i germi della contestazione. Vi si recherà per ascoltare i Beatles, prendere contatto con gli Archigram e rendere omaggio alla tomba di Marx. Dopo alcuni mobili afro-tirolesi disegnati per beffeggiare la logica funzionalista , produttivista e esclusivista del razionalismo, Archizoom nel 1970 propone No-Stop City . Si tratta di un edificio abnormemente ingrandito, tanto da diventare, di fatto invisibile nei suoi confini. All'interno è uno spazio vuoto cablato, climatizzato e protetto dagli agenti atmosferici che può essere utilizzato per praticarvi qualsiasi attività; una distesa antropizzata dove tutto si muove, ma dove è possibile ritagliarsi un àmbito, una sosta al proprio errare nomadico. Precedenti di No-Stop city sono il supermercato e l'officina con i loro spazi indistinti dove gli addetti o le merci circolano liberamente, cambiando nel tempo le loro reciproche posizioni e configurazioni. Ma sono proprio le dimensioni dilatate di No-Stop City che permettono tre nuove possibilità. Primo. Annullano la differenza tra architettura e urbanistica mostrando che, in una società fatta di flussi e di relazioni, non vi è che un problema: la gestione dello spazio unico della comunicazione. Secondo. Oppongono alla logica dell'existenz minimum, fatta di muri e di barriere che delimitano ambienti angusti e tayloristicamente organizzati, quella della libertà del corpo e degli oggetti nello spazio illimitato. Terzo. Denunciano, attraverso l'attenzione per ciò che è immateriale, effimero, mutevole, la fine dell' architettura tradizionale intesa come composizione di oggetti, di forme, di stili. Liquidata con poche e sprezzanti parole da Manfredo Tafuri ("mostruoso connubio tra anarchismo populista e istanze liberatorie attinte dal Maggio francese") No-Stop city ha influenzato la più avanzata ricerca architettonica contemporanea: dall' infinitamente flessibile - almeno, nelle intenzioni- Centro Pompidou di Piano, Rogers e Franchini, sino alle ricerche di Koolhaas sul Bigness, sulla Generic City, sulla trasparenza. Sulla costante e profonda influenza di Branzi sull'architettura e il design contemporaneo, si sofferma il libro di Burkhardt e della Morozzi. Il saggio critico del primo e l'intervista della seconda evidenziano come Branzi abbia messo in discussione i parametri estetici di una società industriale stancamente orientata dalla produzione, e cioè da valori hard, per proporre quelli di una nuova civiltà postmoderna segnata dal consumo, e cioè dal soft. Se tralasciamo No-Stop City , il cui carattere è prevalentemente utopico, ciò è avvenuto concretamente a partire dalla fine degli anni Settanta, quando Branzi lavora sul Design primario, cioè su qualità quali il colore, la luce, il microclima, la decorazione, gli odori, i suoni. E poi negli anni ottanta quando con Sottsass e Mendini inventa il Nuovo Design, orientato verso il gioco e l'immaginazione. Afferma: " le qualità che chiamammo strutture soft anche per distinguerle da quelle hard della forma dura del progetto, sono generalmente considerate del tutto secondarie sia nel pensiero del Movimento Moderno che in quello classico dell'architettura storica. E, invece, sono particolarmente importanti perchè inducono un nuovo modo di porsi dell'uomo rispetto al mondo; una nuova ecologia della produzione". Si introduce cosi' la terza e, per ora, ultima fase dell'attività di Branzi. Sono i progetti per le rive dell' Hudson a New York (1987) e il recente progetto di Agronica (1996), città insieme agricola e telematica, caratterizzata, come nota Burkhardt, da una urbanizzazione debole dove le funzioni urbane e agricole si incontrano, mescolandosi e riadattandosi continuamente alle nuove esigenze.